giovedì 17 luglio 2014

Le puttane del mare di Livorno


Certo che ci vuole un incoscienza alcolica per tirare fuori dalla valigetta un computer portatile in un luogo simile.
Ma poi quale è l’alternativa? La coscienza? Coscienza di che?
Le mattonelle a fiori rattoppati stridono con le slot machine rubasoldi che non dovrebbero stare in questo luogo antico.
Il biliardino è consumato, i panini sono vecchi. I tavoli sono scrostati. Le cameriere sono sporche.
E se costoro hanno la coscienza di incedere per quello che sono, cosa mai vorrebbe dire in un posto come questo essere inconscienti ?

Trippe nemmeno nascoste, cappellini con marchi di oleifici che non esisotno più. Occhiali tenuti con lo spago. Perché il signore di sessanta e passa anni non si schioda dallo schermo mentre cerca di far uscire il tris di cuori nella macchinetta?
E le puttane, dico, ma le avete viste?

Sono di una bruttezza smodata ed eccellente. Sono grasse, sporche e mal vestite.
Eppure hanno il coraggio di proporsi, di avvicinarti.

Uomini beccati nel mezzo di un salto mai fatto, tra consuetudini frantumate e un incedere attuale che corre troppo veloce per le loro gambe gonfie: meglio fermarsi in questa terra di mezzo.

Birra e vino. Quanta ne scorre.
Battute che non capisco, livore toscano ed accenti etruschi che si perdono nella notte delle ugole.

Chissà nel tempo che fine faranno questi posti. Chissà se chi si chiama fuori dai normali traffici umani potrà contare sempre su luoghi come questo, privi di luce, ma anche di regole, di imposizoni.
Questi piccoli suburbi incastonati nelle città pulite valgono come il marciapiede al quale ti appoggi quando non riesci a più a tenere il ritorno sfrenato nel mondo pulito.

Quanto  tempo passiamo a pulirci, solo per un gioco di specchi.

Sono luoghi fermi, ogni azione è un distillato di luoghi comuni.
Ongi passo è un barcollare che se ne frega della giusta postura. La polizia qua dentro nemmeno verrebbe. A fare cosa? A portare ordine?
A chiedere lo scontrino del caffè da 50 centesimi, fuori da ogni logica di mercato?

Chi non ce la fa più, o chi non ce l’ha fatta, può contare su questi luoghi.
Il meglio e il peggio dell’umanità, si danno appuntamento qua.

Per quel che mi riguarda, pane con le acciughe come viatico del paradiso. Se esiste un eden credo vi si mangi il pane con le acciughe e il vino rosso.

Sensazione infantile e calorosa, di quando tutto teneva, e le acciughe stavano sopra la pizza estratta dal forno che faceva accorrere i ragazzini da ongi parte della via, fermando di colpo la partita ci calcio sull’asfalto.

Il tempo in cui le acciughe erano ancora pesci e non patè .


La cameriera si improvvisa assistente sociale ed avvicina il vecchietto ipnotizzato davanti alla macchinetta con fare filiale ‘ non abbiamo giocato abbastanza per oggi?
E lui cede, a patto di scendere dallo sgabello pur di sentirsi tenuto per mano.
Ecco il gesto mancante: tenersi per mano. Quando mai si vede oggi, nelle nostre strade e nelle nostre esistenze, qualcuno che tiene l’altro per mano per salvaguardarlo?
Per invitarlo ad andare a casa?
La mano oggi è un patto frettoloso, una consuetudine che manca di intimità, è una credenziale scambiata con le unghie nettate e il palmo non sudato. Un biglietto da visita ritoccato. Un gesto senza animalità ma intriso di freddezza.

I l signore con regimental e pizza da asporto non c’entra nulla, come me. Ma si siede. Onore al coraggio!
E via, blachberry e profluvio di mail e ordini impartiti. E’ a suo agio, non teme il tavolo sporco. Toglie il giornale con un gesto consueto. E’ un proprietario del tempo rarefatto di questo spazio. Possiede un codice che non conosco: si intende al volo con la cameriera. Gli porta un quarto di rosso, un pane nero e un patè di tonno.
E’ un abituale di questo luogo, è un accettao nel codice. Io no, io sono in fondo, io non centro. Come insegna Celinè, questo uomo ha la sua importanza collettiva, io sono solo un individuo passant.
Sono un avventore sopportato perché magio al desco. Ma non sono uno di loro. Non lo sarò mai. Ho fattole valigie da questi significanti molto tempo fa, per approdare in nessun luogo, prima di incontrare l’amore.
L’amore che mi ha impedito di diventare una carogna.
Mi reco un mestiere e il rimpianto di non aver conosciuto le mi radici.

Ho frequentato troppi stronzi ben vestiti. Non ho più l’odore del passato.
Sono un animale che vive in cattività ovunque.


Scoppia una rissa. SI spegne subito. Nessuno si volta, fa parte del codice. Solo io mi allarmo perché vivo in un mondo paranoico sospettoso.

Alla fine della vita vorrei trovarmi qua, con tutte le cose care che ho lasciato. Davanti ad un pizza alta e con le acciughe, con i bicchieri sfasati.
Con i sigari cubani di calibro medio e un liquore che li porti sino alla fine.

C’è un uomo, evidentemente caduto tempo fa, che se ne sta in una pura contemplazione della donna che serve le patatine fritte. La osserva mentre lo strappa al suo reale. Probabilmente non saprebbe nemmeno cosa fare, e immagino che non dia un bacio da tempo, prima del suo crollo.
La sua è una contemplazione pura.
Come davanti ad una statua del Bernini. O ascoltando Malher.

Tutto questo ha termine col fischio del treno, che mi riporta via.
Ma non loro, questa umanità composita e goffa che domani sa di potersi ritrovare qua.

Fuori c’è la gente normale.
Che non sono uomini e donne anziane, ma persone invecchiate.
Avevano l’aria di chi non si sente dire da tempo “come va?”


Mi chiedo che senso abbia la solitudine,
e perché faccia parte del corredo umano.
La fine della vita passata da soli,
senza nulla che motivi campare il giorno e tirare la sera.

Il mio saluto è stato l’inutile e distratto imprevisto nella loro attesa della fine.

Eppure sono stati uomini e donne, lavoratori e amanti.
E tante ne avranno combinate.
E corse, passioni, liti e sangue e tradimenti.
E poesie e bestemmie, e maledizioni e cibo mangiato con voracità.
E magari sacrifici fatti e subiti, in nome di una miglior vecchiaia.

Ma fuori dal discorso d’amore, siamo nati tutti già vecchi,

La costante della nostra esistenza è quella di esser soli.
L’illusione del gruppo o della comunità andrebbe infranta alla nascita.

La solitudine della coscienza è qualcosa che precede la parola.
Rimuginare viene prima di parlare con gli altri del proprio rimuginare.
Poche cose appaiono chiare come questa nei momenti di transito della vita.

E’ un grande baraccone dove ci sono solo comparse.

Siamo, nostro malgrado, prim’attori. Interpreti unici, “ special guest” di un canovaccio che dobbiamo imparare a reggere.
.


Forse, ma dico forse, ci resta l’etica. Un etica. Una qualche forma di retto vivere che prende questo nome.
La scelta di una vita etica è il colmo della solitudine.

Alexander Langer ce lo ha insegnato lasciandoci. O Mishima, o Mayakosky. O Gramsci.

E’ una scelta che a volte si fa dopo aver commesso molti sbagli.
Ma gli sbagli sono il frutto dell’illusione iniziale.
Dell’aver stupidamente creduto al “ benvenuto tra noi”.

Gli sbagli sono il frutto dell’illusione che ci siano anche gli altri. Che ad ogni tua caduta, cedimento, sospensione, ci sia qualcuno pronto a prenderti, accoglierti. Sorreggerti.
Si sbaglia abbagliati dal sole dell’illusione di essere parte di un gruppo.

Shultz faceva spesso dire a Charlei Brown , in piedi sulla piccola collinetta del pictcher nel campo da baseball, “ Dove sono tutti gli altri?”

Cedono le figure di cartongesso, se ne vanno i figuranti. Collassano di colpo le quinte. I riflettori illuminano figuranti di cartapesta.
Tutto inizia così.


Si è come il portiere, quello che sta tra i pali. Risponde solo di se, delle sue scelte.
Della sua preparazione fatta nelle lunghe serate con la luce dei lampioni.
Il portiere si allena da solo. Lo sanno tutti quelli che hanno occupato questo ruolo. Sua la decisone di buttarsi o no. Sua la decisone di uscire con la palla alta, sua la decisone di restare tra i pali. Sua intuizione dell’angolo destro o sinistro da coprire, al momento del rigore. Nulla è più rivelatore del rapporto di solitudine che maschera la finta idea di comunità quanto il momento del rigore.
Sino al momento prima c’era la squadra, i parenti sugli spalti. Le grida, le urla.
Poi , quando si tira la riga dagli 11metri, l’illusione cade di colpo.
Lui, solo, di fronte al portiere, anch’esso solo.
La squadra non conta.
La vita è pressappoco questo.

Buttate gli zerbini con su scritto “ Welcome”.
Mentono.

Mare, profumo di sabbia. Petrolio bruciato. Salsedine e scogli, nonostante l’inverno.

lunedì 14 luglio 2014

Padre emiliano, madre toscana

Via della vedova (‘Veduà’)

Sono quasi tutte a coppie le foto ingiallite del cimitero che resiste nella parte vecchia del paese. Anche se sono ventidue gli anni che separano l’ultimo giorno di Antonio e Assunta, l’immagine ignora il lungo tempo della solitudine di lei, e li immortala così come hanno voluto vivere, in coppia. ‘Grazie mamma, i figli tutti ringraziano’ sta scritto in calce. Io li conosco bene i figli, a suo tempo domandai perché di quel grazie. ‘Per l’attesa, per la solitudine del vivere da vedova crescendo noi tutti’. A guardare bene, quella lapide è identica a tante altre esposte. Grazie a tutte le mamme, che hanno atteso vanamente nel borgo vecchio gli uomini dispersi in Russia o morti in Africa. Non è la via delle vedove, ma la strada dell’attesa.
Questi ringraziamenti scompaiono da quelle del dopoguerra, foto a colori di un tempo più bello, dove gli sposi hanno campato la vita sino alla fine. Belle tutte queste coppie, con le prime 500, innamorati sul seggiolino della Vespa e con gli abiti a fronzolo. Bellissima era la mamma, con la vite stretta e i capelli cotonati. Un tempo di smisurata speranza.


Via della strega (‘Via d’la strìa’ )

Sempre sia lodato’ mi faceva ripetere il nonno innanzi al rigido arciprete. Incenso e dopobarba, un senso cupo di dolore causato da altri e pagato da tutti. Espiazione, redenzione. Parole d’ordine di un tempo remoto recitate in canonica. ‘Chiedi perdono, e stai vigile’. ‘Ma che vuole dire?’ chiedevo mentre osservavo sgomento la testa di San Giovanni decollato sopra al pulpito. ‘Significa che tu dovrai saper perdonare, e stare attento al malocchio. Sei figlio di questa terra’. Figlio di contese e di diatribe tra famiglie che avevano perso la memoria, ma non la pratica di volersi male per contrade. Discendenti delle streghe gli uni, dei carnefici che le bruciavano gli altri. Stemmi a testimoniare i massacri. Nei cuori di quegli uomini batteva solo un muscolo feroce, ritmato. Erano più che violenti, erano senza cuore. Vestiti di Rosso si spostavano mossi dall'odio cieco e dal desiderio di ammazzare, atleti perfetti del terrore da inculcare. Sono queste le figure di cacciatori di streghe che vivevano in Luigiana, ai tempi del Malleus Malleficarum. Sotto al ponte almeno 30 ne hanno arse vive. Ecco allora la chiave delle parole dell’arciprete.
Perdono, per le colpe commesse da noi tutti verso quelle povere donne.
Ma attento, il malocchio delle streghe da qualche parte rimane. Stai vigile.
Il malocchio si toglie con l’olio, il sale ed una formula che la nonna recitava. Chiama il Signore, caccia la strega che ha ‘strià’ (stregato) il bambino. Stregato, termine che oltre l’Appennino perdeva il suo significato sinistro per mutare in frase da romanzo o da fiaba per i piccoletti. ‘Strià’ ragazzino vivace, birbante Parola che resiste ancora nel dire dei paesani.


Via del Perdono

Perdono e pietà. 
Parole rare in entrambi i dorsi dell’Appennino.
Perdono chiedevano le madri dei ragazzi stanati all’alba dai loro letti e impiccati sul noce. Il più giovane fu tenuto esposto 5 giorni, a ricordare a tutti che non c’era pietà. La donna vestita di sacco non potè andarlo a deporre, pena rivelare il suo essere madre. La piccola comunità ebbe cura di questa donna. ‘A iò a chér’, inflessione dialettale emiliana compagna dell’ ‘ I Care’. Significa preoccuparsi, avere a cuore e nel cuore. Era la formula con la quale si dava la dote alla sposa. Poco incline al sacro, laico anche nel suo pronunciarsi, il dialetto dell’altra mia terra protesse quella madre. Sino a che morì di crepacor, crepacuore, che non è infarto, ma qualcosa che non si traduce. 


Via degli Esposti

La ruota degli esposti confina con il vecchio muro di cinta che divideva la polis dalla vegetazione incombente. Mi sono sempre domandato perché i bambini rifiutati non venissero posti innanzi alla chiesa di San Giovanni, pure dotata di pertugio, ma lasciati per alcune ore al freddo. Me lo ha spiegato l’anziano sacerdote: se tutti gli infanti si fossero salvati, sarebbero divenuti bocche da sfamare per una cittadina allo stremo. L’esposizione al freddo permetteva una selezione feroce, ma accettata. Pietà e fame, sono parole che non vanno in coppia. Quelli che hanno fame non possono essere buoni, ha scritto più o meno questo, da qualche parte, il dr Destouches.


Via della fame

E di fame ce n’era tanta allora. Tanta da non avere tempo di domandarsi null’altro oltre a che cosa si sarebbe portato a tavola quel giorno. La penuria di cibo generava frenesia. La corsa partiva la mattina, con la tessera annonaria. Poi c’era il pomeriggio passato al mercato nero, e la sera la si dedicava al baratto tra vicini. Si regalava il grana per i matrimoni, il caffè , dicono, spesso si ostentava sulla credenza a bella vista per gli ospiti, ma a cena si beveva il surrogato di cicoria. Quando la nonna è scomparsa, ho trascorso un intero pomeriggio con le donne anziane del posto. Mi hanno accolto distribuendo biscotti e cognomi, ricostruendo e annaffiando l’intero albero genealogico, collocando nel tempo episodi, citando unioni e matrimoni, narrando di chi nacque dall’incontro con chi. Ogni personaggio della storia aveva un soprannome, derivato dalla sua attività o da una particolarità fisica. Le sei diverse famiglie di quella via sono ricordate con soprannomi che testimoniano di come si procuravano il cibo e che, nel tempo, si sono sostituiti al cognome anagrafico.
Beccafico, Mangiapatate, Vinella, Scorticatopo, Rubafagioli.
La via della fame. Abitata da donne che in Toscana si chiamano ‘matrone’, in Emilia diventano “rezdore” (quelle che fanno la funzione del “reggente”). 

lunedì 7 luglio 2014

insegnamenti

Ma quel mondo non esisteva più, e lui non trovava il coraggio i dirglielo. Come lo avrebbe capito? Era stato cresciuto con buoni principi, regole. Una certa misura del giusto e del limite. E non lo aveva mai ringraziato per questo. Portava i segni di un mondo violento e senza scrupoli, che rideva di quel mondo fatto di doveri e fatica.  I suoi amici di sinistra erano cinici e arrivisti. Il maestri di quel suo tempo usavano gli avvocati come metro regolatore col mondo. Vivere era fuggire, biecamente cercare l'affare migliore, fottere. Apparire e discolparsi, vivere la vita lasciando un senso di invincibilità per i posteri, e quintali di balle da raccontare ai figli. Era un mondo cambiato in fretta, fatto di auto troppo grandi per essere dichiarate, di soldi portati all'estero mentre si scrivevano articoli di moralismo. Era una perversione generalizzata, un giocare con le vite altrui. L'aver perso ongi certezza di un al di la possibile, di una redenzione, di un riscatto. Era il tempo della vergogna dei padri e della miseria patita. Avrebbe voluto dirgli che i suoi insegnamenti poco avevano potuto in questo tempo, che nessuno mai lo giudicava per il suo lavoro o la sua rettitudine. E nemmeno aveva trovato un posto dove spendere l'onesta ereditata. Ma lui era troppo vecchip per capire. Lui, che veniva da un mondo fatto di turni e rifiuto della rate. Quel mondo non esisteva più, e ancora non trovava il coraggio per dirglielo

mercoledì 2 luglio 2014

Danzare


Ebbe, nel veder danzare quella donna minuta e pallida, un sussulto di amarezza.
Stupore diluito in rabbia.
Ma la meraviglia di quel corpo che fendeva l'aria con le mani e armonizzava le
linee spezzate e confuse della città, aveva il sopravvento. Tempo rappreso in un metro quadro.
Come in una teca, il rumore del bus le moriva attaccato. Ci si metteva in silenzio.
Si occhiava con disgusto chi apriva il cellulare.
Danzare.
Danzare senza parlare.
Ad alcuni era risparmiata la faticosa opera d'ingresso nel mondo con le parole.
Dalla lallazione alla discussione della tesi di laurea, un lavoro da bestie!
Le frasi da articolare, le convenzioni da adottare, le inflessioni da infondere al tono a seconda
del recinto nel quale ti trovi. Sempre a pensare cosa diranno di te, a dedurre in che modo ti faranno entrare, o ti sbatteranno fuori.
Commerciare  con il mondo attraverso il linguaggio è l'opera più difficile, per lui  una roccia insormontabile.
Nel suo dire goffo le paratie delle censure non  si alzavano in fretta, il tono si trascinava da luogo a luogo senza trovare il tempo di mutare.
Cambiava d'abito, ma non cambiava il linguaggio.
Diveniva rozzo ladodve c'era bisogno di dolcezza, fluido dove serviva rabbia.
Un corpo immobile che cercava di muoversi, annaspando e egesticolando, con quegli strumenti poco spendbili che erano per lui le parole.

Il giurista, il giornalaio, i ragazzi fuori dalla pizza al taglio.
Il loro vociare cambiava repentinamente , adeguandosi al  luogo nel quale stavano per entrare,
 , mutando ai ritmi infernali che la città impone.
Toni, aggettivi, postura, intonazione.
A nessuno era permesso usare la propria lingua, si doveva usare la parola del luogo vicino,
violentando, mozzicando, sottoponendo i pensieri originari a cambi d'abito che finivano per snaturarlo.
Davanti al caffe della colazione rivoluzionari e inventivi, per strada quaunquisti coi passanti.
In negozio gentili per poter uscire.
Una soggettività uccisa dal significante sin dalle prime ore di mattina.

Quella ragazza no, lei annullava il linguaggio.

Tutti venivano calamtitii da quel che sapeva esprimere senza dire una parola.
 

Roteando il bacino e la schiena in un movimento  che ricordava l'ossessivo ondeggiare dei rabbini davanti al muto del pianto.
O mimando la camminata armoniosa della  Carmen quando entra in scena.
Joe strummer col microfono vicino alle labbra  trasmetteva  qualcosa di simile.
Carlo Maria Giulini, quando chiudeva gli occhi alla Scala.

Se avesse avuto in dono la capacità di ballare , se ne sarebbe potuto stare per sempre nel silenzio delle parole.
 Senza più il  timore di non essere riconosciuto  e parlato da altri

A ritroso

Stamane, di buon mattino, il ginocchio già provato mi ha tradito dopo 17 kilometri di corsa. Mi ha fulminato davanti al quartiere verde, dove filari di alberi e un piazzale di cemento con i canestri mi ricorda quando non mi era permesso di andare oltre quegli enormi caseggiati.

Suono, chiedo un bicchiere d’acqua, e i piattino con la minerale affaccia su scene che la mia infanzia non voleva, non capiva. Che mi sapevano di vecchio e di tempo perso.

M siedo con 4 uomini vecchi che sono stati anziani ma senza che mai se ne accorgessero.

‘ A sam in pena par al segretari dal partì’ ( siamo in pena per il segretario del partito)
Chi, Renzi?
‘ No, no. Quall’è l’è un stoped. Ai stoped angh capoità mai gninta’ ( no , quello è uno stupido. Agli stupidi non succede mai nulla di brutto)

Traduco il resto della discussione, alla quale mi unisco tirando fuori il mio dialetto.

‘Sa, tante preoccupazioni. Ne ha passate tante’
‘Bersani?
‘Esatto’
‘ Non può mica andare così, capisce? Ha solo 60 anni. Non può morire a 60 anni, il segretario’
‘Avete ragione voi. Non può morire’

Bevo il loro vino.

Sento il potere delle parole di una terra che ti può salvare, usate come preghiera laica davanti al liquore. Sento la pietas di queste gente che ancor alberga in me, che mi ha salvato, impedendomi di diventare una carogna come tanti.
Mi unisco al loro raccoglimento secolarizzato e ruvido, e parlare con loro sfoderando il mio miglior dialetto è il mio posto nella preghiera collettiva.

Mi alzo da li, semisbronzo e felice.
Ci metterò oltre un ora e mezza di buon cammino per tornare a casa.

Mentre mi tengo il ginocchio cigolante, patisco.

Patisco nostalgia di un tempo che ha voluto correre, al quale queste case, questi vecchi, queste coppole e questi orti hanno opposto resistenza.

Soffro e giosco perché subisco il fascino antico e decrepito della mia terra percorsa all’inverso.

E poi qualcuno dice che correre non è bello.


Lancette

Dopo corsa, sosta alla vecchia casa toscana.
Arruginite, storte ed incongruenti.
Congelate come se fosse vero ciò che nonno diceva: dopo di me , nulla.
Così ho ritrovato le lancette della sveglia a cipolla con i battenti d'alluminio e il vetro rotto.
Quattro meno dieci. Li si usava dire così, meno qualcosa, fai i tuoi conti.
Così era la sua età, mai riferita : 'è nato nel 43, fai i tuoi conti'.
Tempo fermo di tabacco, di amori infiniti e tradimenti puniti duramente.
Tempi di fedeltà coniugale a prova di fronte abissino.
Tempi di pane diviso con la tessera annonaria: 2 etti di pane in più, perchè lei aspettava mia madre.
Storie di tempi di addio decisi a mente fredda, lui e lei morirono a pochi minuti di distanza.
Misteri di queste lancette, che battono il loro tempo, sempre e comunque fermo a decisioni già prese.

Lo aveva salvato Celinè

Camminava sopra ad una lamina di buio che si andava progressivamente allargando.Da un lato il mondo reale, antico, a lui più proprio. Dall'altro il mondo che lo aveva catturato, affascinato.La crepa tra i due lembi era ormai talmente larga da non vanificare qualsiasi tentativo di ricucitura.Doveva scegliere, scegliere in fretta.Il buio nel quale stava precipitando era letale perchè non era reale. Non era il frutto di un addio, di un distacco. Non di una perdita, nè di un lutto.Non era la pece che si posa sul cuore e lo pietrifica appena dopo aver sepolto un amico o un familiare. E nemmeno era quel annunciarsi di nebbia e piombo che segue ad un distacco amoroso.Non presupponeva un oggetto perso, non anelava ad una riconquista.Era l'indicibile male della perdita di un non luogo, di un entità fittizzia. Le rovine di un castello inesistente. Gli abissi di un mare immaginario. Solo chi abita il mondo reale conosoce i lutti e le separazioni da cose concrete. Chi modella la vita vestendo abiti non propri, abitando una vita che non è la sua, non prova dolori normali.Stava dunque cadendo, ma non avrebbe avuto margini di ripresa.Doveva staccarsi di dosso quella pelle, doveva definitivamente liberarsi dagli orpelli di quel mondo. Cancellarlo. Farlo a pezzi. Solo cos' avrebbe potuto tornare nei suoi vecchi vicoli, tra la sua gente. Nelle sue strade. Aveva bisogno di un dolore normale, di una depressione vivibile.Il libro di Celinè aveva avuto questo merito: lo aveva riabilitato ad una notte sopportabile

Nessuno sa


Nessuno sa veramente quanto siano preziose le parole, la scrittura. Un organo supplementare che metabolizza le scorie, una difesa imperforabile contro il brutto. Se la sai usare, rendertela amica, ti protegge da tutto questo. Le vecchie lettere unte di grasso degli studi passati, gli articoli, le sillabe, si legano a laccio di scarpa per annodarsi in un filo che sostiene la caduta. Quando tutto sembra finito, quando anche l'ultimo amico se ne è andato, l'ultima telefonata andata a vuoto, ti restano le lettere, e tutto quel mondo può essere scritto. Spezzi così il buio delle cose. Non serve la giacca, non serve l'abito elegante. L'uomo protetto dalle lettere è quasi sempre disordinato e poco allineato la mondo.


Fatica

La scrittura come fatica. Come impegno, disciplina. Senza felicità apparente, che non sia osservare stanchi la parola compiuta. Uno stato di tossicomania, come nell'alpinismo estremo. Senza fiato, malnutriti, accampati, esposti ai venti che spazzano. Lo scrittore professionista conosce già i vicoli della prosa. Ritaglia, assembla, il prodotto finale gli è già chiaro come lo è al cuoco che da una poltiglia indifferenziata estrae un piatto elaborato. Per tutti gli altri, ci sono solo cose indicibili. La maggior parte delle cose che ci circonda è indicibile . Ci commuove, ci stupisce, ci stimola un rigurgito. Perchè dirle, perchè togliere loro l'originaria bellezza? Non c'è motivo apparente, come non c'è per pulire le scale,  riordinare la tavola. Lavare l'automobile, salutare il vicino. E' un automatismo che spinge a vivere, e, vivendo, coprire con gesti e parole tutto quello che è sta in superficie. Una vita intera può essere trascorsa solo pulendo, salutando, scambiandosi auguri o convenevoli. Prendendo i figuranti per persone, i movimenti meccanici per carezze. Le mani agitate per saluti. Il bofonochiare per una parola d'affetto. Scrivere una pagina di diario può valere più di anni di facciata. La scrittura è una fatica supplementare, che cerca di organizzare l'inanimato, di tessere una tela tra cose disomogenee. Dirle significa ordinarle. Scrivere è quindi un vano tentativo di dare un poco di ordine a quello che ci gravita attorno. Si scrive molto quando si sceglie di rinunciare e alla farsa dei saluti e delle telefonate nei giorni degli anniversari.