Certo che ci vuole un incoscienza alcolica per tirare fuori dalla valigetta un computer portatile in un luogo simile.
Ma poi quale è l’alternativa? La coscienza? Coscienza di che?
Le mattonelle a fiori rattoppati stridono con le slot machine rubasoldi che non dovrebbero stare in questo luogo antico.
Il biliardino è consumato, i panini sono vecchi. I tavoli sono scrostati. Le cameriere sono sporche.
E se costoro hanno la coscienza di incedere per quello che sono, cosa mai vorrebbe dire in un posto come questo essere inconscienti ?
Trippe nemmeno nascoste, cappellini con marchi di oleifici che non esisotno più. Occhiali tenuti con lo spago. Perché il signore di sessanta e passa anni non si schioda dallo schermo mentre cerca di far uscire il tris di cuori nella macchinetta?
E le puttane, dico, ma le avete viste?
Sono di una bruttezza smodata ed eccellente. Sono grasse, sporche e mal vestite.
Eppure hanno il coraggio di proporsi, di avvicinarti.
Uomini beccati nel mezzo di un salto mai fatto, tra consuetudini frantumate e un incedere attuale che corre troppo veloce per le loro gambe gonfie: meglio fermarsi in questa terra di mezzo.
Birra e vino. Quanta ne scorre.
Battute che non capisco, livore toscano ed accenti etruschi che si perdono nella notte delle ugole.
Chissà nel tempo che fine faranno questi posti. Chissà se chi si chiama fuori dai normali traffici umani potrà contare sempre su luoghi come questo, privi di luce, ma anche di regole, di imposizoni.
Questi piccoli suburbi incastonati nelle città pulite valgono come il marciapiede al quale ti appoggi quando non riesci a più a tenere il ritorno sfrenato nel mondo pulito.
Quanto tempo passiamo a pulirci, solo per un gioco di specchi.
Sono luoghi fermi, ogni azione è un distillato di luoghi comuni.
Ongi passo è un barcollare che se ne frega della giusta postura. La polizia qua dentro nemmeno verrebbe. A fare cosa? A portare ordine?
A chiedere lo scontrino del caffè da 50 centesimi, fuori da ogni logica di mercato?
Chi non ce la fa più, o chi non ce l’ha fatta, può contare su questi luoghi.
Il meglio e il peggio dell’umanità, si danno appuntamento qua.
Per quel che mi riguarda, pane con le acciughe come viatico del paradiso. Se esiste un eden credo vi si mangi il pane con le acciughe e il vino rosso.
Sensazione infantile e calorosa, di quando tutto teneva, e le acciughe stavano sopra la pizza estratta dal forno che faceva accorrere i ragazzini da ongi parte della via, fermando di colpo la partita ci calcio sull’asfalto.
Il tempo in cui le acciughe erano ancora pesci e non patè .
La cameriera si improvvisa assistente sociale ed avvicina il vecchietto ipnotizzato davanti alla macchinetta con fare filiale ‘ non abbiamo giocato abbastanza per oggi?
E lui cede, a patto di scendere dallo sgabello pur di sentirsi tenuto per mano.
Ecco il gesto mancante: tenersi per mano. Quando mai si vede oggi, nelle nostre strade e nelle nostre esistenze, qualcuno che tiene l’altro per mano per salvaguardarlo?
Per invitarlo ad andare a casa?
La mano oggi è un patto frettoloso, una consuetudine che manca di intimità, è una credenziale scambiata con le unghie nettate e il palmo non sudato. Un biglietto da visita ritoccato. Un gesto senza animalità ma intriso di freddezza.
I l signore con regimental e pizza da asporto non c’entra nulla, come me. Ma si siede. Onore al coraggio!
E via, blachberry e profluvio di mail e ordini impartiti. E’ a suo agio, non teme il tavolo sporco. Toglie il giornale con un gesto consueto. E’ un proprietario del tempo rarefatto di questo spazio. Possiede un codice che non conosco: si intende al volo con la cameriera. Gli porta un quarto di rosso, un pane nero e un patè di tonno.
E’ un abituale di questo luogo, è un accettao nel codice. Io no, io sono in fondo, io non centro. Come insegna Celinè, questo uomo ha la sua importanza collettiva, io sono solo un individuo passant.
Sono un avventore sopportato perché magio al desco. Ma non sono uno di loro. Non lo sarò mai. Ho fattole valigie da questi significanti molto tempo fa, per approdare in nessun luogo, prima di incontrare l’amore.
L’amore che mi ha impedito di diventare una carogna.
Mi reco un mestiere e il rimpianto di non aver conosciuto le mi radici.
Ho frequentato troppi stronzi ben vestiti. Non ho più l’odore del passato.
Sono un animale che vive in cattività ovunque.
Scoppia una rissa. SI spegne subito. Nessuno si volta, fa parte del codice. Solo io mi allarmo perché vivo in un mondo paranoico sospettoso.
Alla fine della vita vorrei trovarmi qua, con tutte le cose care che ho lasciato. Davanti ad un pizza alta e con le acciughe, con i bicchieri sfasati.
Con i sigari cubani di calibro medio e un liquore che li porti sino alla fine.
C’è un uomo, evidentemente caduto tempo fa, che se ne sta in una pura contemplazione della donna che serve le patatine fritte. La osserva mentre lo strappa al suo reale. Probabilmente non saprebbe nemmeno cosa fare, e immagino che non dia un bacio da tempo, prima del suo crollo.
La sua è una contemplazione pura.
Come davanti ad una statua del Bernini. O ascoltando Malher.
Tutto questo ha termine col fischio del treno, che mi riporta via.
Ma non loro, questa umanità composita e goffa che domani sa di potersi ritrovare qua.
Fuori c’è la gente normale.
Che non sono uomini e donne anziane, ma persone invecchiate.
Avevano l’aria di chi non si sente dire da tempo “come va?”
Mi chiedo che senso abbia la solitudine,
e perché faccia parte del corredo umano.
La fine della vita passata da soli,
senza nulla che motivi campare il giorno e tirare la sera.
Il mio saluto è stato l’inutile e distratto imprevisto nella loro attesa della fine.
Eppure sono stati uomini e donne, lavoratori e amanti.
E tante ne avranno combinate.
E corse, passioni, liti e sangue e tradimenti.
E poesie e bestemmie, e maledizioni e cibo mangiato con voracità.
E magari sacrifici fatti e subiti, in nome di una miglior vecchiaia.
Ma fuori dal discorso d’amore, siamo nati tutti già vecchi,
La costante della nostra esistenza è quella di esser soli.
L’illusione del gruppo o della comunità andrebbe infranta alla nascita.
La solitudine della coscienza è qualcosa che precede la parola.
Rimuginare viene prima di parlare con gli altri del proprio rimuginare.
Poche cose appaiono chiare come questa nei momenti di transito della vita.
E’ un grande baraccone dove ci sono solo comparse.
Siamo, nostro malgrado, prim’attori. Interpreti unici, “ special guest” di un canovaccio che dobbiamo imparare a reggere.
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Forse, ma dico forse, ci resta l’etica. Un etica. Una qualche forma di retto vivere che prende questo nome.
La scelta di una vita etica è il colmo della solitudine.
Alexander Langer ce lo ha insegnato lasciandoci. O Mishima, o Mayakosky. O Gramsci.
E’ una scelta che a volte si fa dopo aver commesso molti sbagli.
Ma gli sbagli sono il frutto dell’illusione iniziale.
Dell’aver stupidamente creduto al “ benvenuto tra noi”.
Gli sbagli sono il frutto dell’illusione che ci siano anche gli altri. Che ad ogni tua caduta, cedimento, sospensione, ci sia qualcuno pronto a prenderti, accoglierti. Sorreggerti.
Si sbaglia abbagliati dal sole dell’illusione di essere parte di un gruppo.
Shultz faceva spesso dire a Charlei Brown , in piedi sulla piccola collinetta del pictcher nel campo da baseball, “ Dove sono tutti gli altri?”
Cedono le figure di cartongesso, se ne vanno i figuranti. Collassano di colpo le quinte. I riflettori illuminano figuranti di cartapesta.
Tutto inizia così.
Si è come il portiere, quello che sta tra i pali. Risponde solo di se, delle sue scelte.
Della sua preparazione fatta nelle lunghe serate con la luce dei lampioni.
Il portiere si allena da solo. Lo sanno tutti quelli che hanno occupato questo ruolo. Sua la decisone di buttarsi o no. Sua la decisone di uscire con la palla alta, sua la decisone di restare tra i pali. Sua intuizione dell’angolo destro o sinistro da coprire, al momento del rigore. Nulla è più rivelatore del rapporto di solitudine che maschera la finta idea di comunità quanto il momento del rigore.
Sino al momento prima c’era la squadra, i parenti sugli spalti. Le grida, le urla.
Poi , quando si tira la riga dagli 11metri, l’illusione cade di colpo.
Lui, solo, di fronte al portiere, anch’esso solo.
La squadra non conta.
La vita è pressappoco questo.
Buttate gli zerbini con su scritto “ Welcome”.
Mentono.
Mare, profumo di sabbia. Petrolio bruciato. Salsedine e scogli, nonostante l’inverno.